La prima sensazione che provai, durante i miei primi minuti di servizio presso la casa famiglia a cui ero stata assegnata, fu di essermi ritrovata (lì per lì nemmeno io sapevo come!) nel bel mezzo di un’accesa riunione famigliare. Una di quelle in cui in una stanza, all’improvviso, sembrano riunirsi zii, genitori, nonni, cugini, fratelli e sorelle, e il caos divampa ovunque in un susseguirsi di richieste e domande come: “Te le sei lavate le mani?”, “Stasera cosa si mangia per cena?”, “Zia, lo sai che ho preso un bel voto alla verifica di scienze?”; mentre i più piccoli e i più timidi, quelli che nel loro silenzio si sono per primi accorti della tua presenza, ti guardano straniti, si nascondono dietro le gambe degli “zii”, e forse si domandano il perché della tua intrusione in quel marasma che è la loro quotidianità.
Mentre venivo presentata a tutti quanti grazie a G. (una delle educatrici storiche dell’associazione, che per prima mi aveva riconosciuta e accolta), mi ritrovai a pensare che quello in cui mi ero improvvisamente ritrovata fosse uno scenario simile a quando si viene invitati a casa di un amico senza preavviso, e ci si ritrova nel suo salotto circondati dai suoi parenti senza sapere che cosa fare, in mezzo a persone che fra di loro si conoscono benissimo, mentre tu non puoi che sentirti imbarazzata e fuori luogo.
In poche parole, quindi, non fu come presentarsi in un ufficio una mattina, dove le uniche conoscenze dirette che avrei potuto avere sarebbero state quelle con la scrivania che mi sarebbe stata assegnata e il mio computer. No: lì dentro c’erano dei bambini veri, in carne e ossa, che mi guardavano e mi facevano domande e volevano sapere chi fossi e che cosa ci facessi lì, se ero un’altra “zia”, o una volontaria, o l’amica, la ragazza di qualcuno.
Casa famiglia: era giusto che si comportassero così, avevo varcato io la soglia della loro casa, bussando alla porta, è vero, ma senza che loro sapessero il perché, o quale sarebbe stato, da quel momento in poi, il ruolo che sarei stata chiamata a svolgere lì dentro, in mezzo a tutti loro.
Sembrano cose sciocche, ma in realtà, quando vivi dentro una casa che non può, per suo principio, chiudere le porte a nessuno, non lo è mai.
Chissà quanti sconosciuti avranno varcato quella porta, pensai tra me e me, chissà quanti visi come il mio avranno visto, chissà a quanti altri avranno regalato un sorriso, chissà a quanti altri avranno posto la stessa identica domanda: Tu chi sei?
E poi… chissà a quanti altri avranno aperto i loro piccoli cuori colmi di speranza, e chissà a quanti si saranno affezionati, legati, e chissà come abbiano sofferto quando, per motivi vari, sono stati costretti a vederli andare via. A vederli varcare di nuovo quella porta per non vederli più tornare.
I legami sono una cosa bella, ma possono fare male, e questa è una realtà che i bambini della casa famiglia conoscono molto bene, forse anche molto più di noi adulti.
Me ne accorsi, (e intendo dire, me ne accorsi per davvero) quando vidi per la prima volta la piccola E. Una bimba di neanche un anno che mi fissava con uno sguardo quasi perso, quasi terrorizzato e che dondolava, dal seggiolino in cui era seduta, in una posizione di perenne rigidità, come se si aspettasse che qualcosa da un momento all’altro potesse attaccarla e farle del male.
All’epoca non sapevo ovviamente nulla della sua storia, di quale fosse stata la sua vita prima di arrivare in casa famiglia, perciò ricordo che quel particolare mi colpì molto, e ricordo che, insieme agli altri operatori ed educatori, provammo a rassicurarla, a farla stare più serena, cantandole le sue canzoncine preferite e riempendola di piccole e dolce attenzioni.
Ma il suo sguardo spalancato ci attraversava, chissà in direzione di cosa, verso che tipo di passato.
Quello fu uno dei primi momenti in cui mi resi veramente conto di quanto la nostra presenza lì dentro servisse anche per colmare un vuoto, una mancanza, riempire le piccole crepe che la vita aveva inflitto a tutti quei piccoli principi e a tutte quelle piccole principesse e cercare, quando sarebbe stato possibile, di lenire le loro ferite con il balsamo delle nostre attenzioni, del nostro affetto.
È difficile non legarsi a questi bambini, è difficile anche quando piangono o fanno i capricci o assumono atteggiamenti scostanti e tu non sai come prenderli, e se esiste una tecnica magica da usare per placarli e farli dormire sereni, qual è, dov’è, in che manuale puoi leggerla e apprenderla?
In ogni istante cerchi di captare i loro segnali, di indovinare le loro frequenze per interpretarne il linguaggio, per capire ciò che ti chiedono senza davvero parlare.
Non è facile, ma tutti noi ci proviamo e ci riproviamo sempre e comunque.
Perché dal momento in cui varchi quella porta, dal momento in cui ti ritrovi in quella stanza piena di “zii” e nipoti e nipotine, quel nome ti resta appiccicato addosso, ne avverti il peso, la responsabilità, la bellezza.
Casa famiglia.
E piano piano, non subito naturalmente, ma giorno dopo giorno, dopo ogni cena o merenda passata allo stesso tavolo, dopo ogni storia della buonanotte, dopo ogni litigio, dopo ogni risata condivisa, capisci che senza sapere come o perché a quell’incasinata riunione famigliare del primo giorno adesso fai parte anche tu. E che quella casa inizia a diventare qualcosa di familiare, qualcosa a cui inizi a donare pezzi di te, fili di vita che si intrecciano gli uni agli altri indissolubilmente e che ti fanno ricordare quanto tutto ciò che di bello e buono esiste nel mondo, alla fine, consiste nella semplicità di due parole: Casa e Famiglia.