Consorzio Torre Gaia, arrivo in macchina e poi mi metto a cercare l’indirizzo che ci è stato comunicato e lo trovo! Citofono, mi aprono indicandomi il tragitto da fare per trovare la casa. Io dico di aver capito, ma poi sbaglio strada. Dopo aver girato senza troppo senso, vedo una persona che mi aspetta: è M., un’educatrice della casa famiglia, nonché la voce che poco prima mi aveva risposto al citofono e che adesso si presenta a me con mani sui fianchi, abbigliamento comodo, capelli raccolti da una coda. Mi accorgo subito che M. ha il viso un po’ stanco e mi domando se abbia fatto la notte.
M. non mi dice niente, ma ripete la stessa frase che mi ha detto al citofono: “Entra e vai tutta a sinistra”, indicandomi con le mani la strada che avrei dovuto fare e mi accenna un sorriso stanco.
Cerco frasi per scusarmi, ma poi preferisco rimanere zitto e la seguo. Entriamo dentro la casa, attorno molti alberi e prati curati, il che mi porta a pensare che se portassi una persona a Torre Gaia facendogli fare tutto il tragitto bendato e, una volta arrivati, gli togliessi la benda e gli chiedessi in che punto di Roma ci troviamo, sono sicuro che non mi indicherebbe con il dito la parte est della Città. Invece, siamo proprio lì, a cinque minuti di macchina da Tor Bella Monaca. Nessuno che non sia di quella parte di Roma conosce Torre Gaia, ma tutti conoscono Tor Bella Monaca, arriva anche dove i suoi confini territoriali finiscono.
Entro dentro questa casa e, come in ogni posto nuovo in cui entro, per la prima volta non è mai come me lo sarai immaginato. Ogni volta, tutto in un primo momento, non mi piace. Davanti a me le altre due operatrici del Servizio Civile, C. e C.B., sedute sul divano che si trova in un grande salone con cucina. Ci salutiamo e mi accorgo che loro, da buone neofite, non si sono ancora tolte i loro giacchetti e sono rimaste con le borse in mano: hanno il classico atteggiamento di chi non sa cosa fare, cosa dire e quindi accennano bozze di sorrisi nervosi, nascosti dalle mascherine.
Giro la testa e nel salone con cucina c’è A., un’altra educatrice che sicuramente starà dando il cambio a M. Ci presentiamo e non so perché ma questa persona mi trasmette molto calma. A. Avrà forse la mia età, non di più, sta preparando del latte da mettere in un biberon come chi lo fa da sempre.
Mi siedo anch’io sul divano e, per non rompere la tradizione, mi lascio anch’io il giacchetto addosso. Mi giro e vedo arrivare in braccio a M. una bimba: lei è P. Non riesco a vedere il suo viso perché lo nasconde tra le braccia di M. Si è appena svegliata e giustamente ha i capelli scombinati e pochissima voglia di parlare. Non riesco ancora a vedere il visetto: è ancora in braccio e vedo solo due piedini con dei calzini che dondolano. A. cerca di chiamarla e incoraggiarla a bere il biberon appena preparato.
M. passa questa bimba ad A. e lei, la piccola di casa, alza lo sguardo, guarda A. e le sorride, poi si gira e ,con gli occhi ancora stropicciati, ci guarda.
Ora immaginate voi, una bambina di tre anni, appena sveglia, dentro quella che per lei è casa, che vede tre persone con le mascherine, sedute sul divano dove lei gioca, che la fissano.
Io, come lei, non sarei stato contento, ed infatti ci guarda male e si gira dall’altra parte: come non capirla!.
Noi però siamo già contenti così, di poter guardare quella bellezza prendere il biberon mentre cerca le coccole mattutine da parte di A.
Dopo pochi minuti scende B., una ragazza di trent’anni che vive lì. Non è la madre della piccola arrabbiata, ma di un bimbo di un anno che sta ancora dormendo. Ci presentiamo e poi lei cerca di capire chi siamo. Le spiegano un po’ chi siamo e poi rimpiombiamo di nuovo in quel silenzio imbarazzante di quando le persone si sono appena conosciute e non sanno cosa dirsi.
Arriva D., la coordinatrice della casa. Noi oggi dobbiamo fare cinque ore di formazione con lei. Dopo un caffè, ci fa accomodare in una stanza di fianco al salone adibita ad ufficio. Chiudiamo la porta, ci sistemiamo e ci indica il foglio da firmare per far comparire il turno di oggi.
D. sembra nata per ricoprire quel ruolo, e forse è per questo che riesce, senza troppe smancerie, a farti sentire subito a tuo agio. Ci parla dell’organizzazione di Ain Karim, di come l’associazione riesce a vivere, delle entrate e delle uscite e poi ci parla di quasi tutti i casi, presenti e passati, che sono stati ospiti in quella casa e ad Ain Karim in generale. Noi ascoltiamo con attenzione e non possiamo non sentire che nel salone la piccola P. sta giocando. Sentiamo lei che lancia urletti divertiti e fa rumore con i suoi giochi. Quel sottofondo, mentre D. parla, mi fa sembrare la vita più semplice di quanto vogliamo credere. Credo che in ogni contesto lavorativo, dovrebbe esserci questo suono, e che noi non dovremmo mai dimenticarlo.
Faccio un respiro profondo, sorrido e continuo ad ascoltare.
Dopo un paio di ore entra A. chiedendoci se per pranzo la pasta al sugo vada bene per tutti, e io, che non sapevo nemmeno che il pranzo fosse previsto, per nessuna ragione al mondo avrei detto di no a quella pasta al sugo.
Senza che nemmeno me ne sia reso conto si sono fatte le 12:00. D. ci ha parlato di cosa fa realmente un’organizzazione come questa, gli ostacoli che si possono trovare nel tragitto e che nonostante tutto bisogna sempre cercare una modalità per andare avanti per il tuo bene e quello delle persone assistite. Siamo pieni, un po’ stanchi ma più sicuri e sereni. Ci chiama A. dicendoci che il pranzo è pronto, ci laviamo le mani e ci accomodiamo.
Noi speravamo che P. si fosse scaldata e che ci avrebbe dato confidenza, ma ci tiene ancora a mantenere le distanze da noi, e continuo a darle ragione.
Il primo pranzo in casa famiglia è imbarazzante: stai attento a come mangi, a come ti siedi, come se fosse la prima volta che ti siedi ad un tavolo. Ti senti come se avessi gli occhi di tutti addosso, ma in verità nessuno ti guarda, perché giustamente a nessuno interessa come mangi.
C’è anche B. e ci scambiamo qualche battuta e poi D. inizia a raccontare la storia (da lei rivisitata in chiave più comica e leggera) di Cappuccetto Rosso a P. e a tutti noi. In questa versione della fiaba il lupo non viene squartato, ma dopo aver bevuto una coca-cola rigetta i poveri sventurati che erano stati mangiati; inoltre, i personaggi di cui D. racconta in realtà sono i componenti della casa famiglia, ed anche in questo caso vissero tutti felici e contenti.
Ed io spero tanto che sarà così.
Oggi è uno dei miei primi giorni all’interno di questa storia, sarò anch’io un componente di questa e altre cento favole e chissà che ruolo avrò.